Meno di un anno fa ho scritto –
in occasione dell'attribuzione a Octavio del Premio Nonino – un articolo
"convenzionale" su di lui. Forse non era proprio convenzionale, ma
rispettava i canoni di quel che si scrive di un autore e di un amico ancora in
vita e con davanti a sé un futuro.
Quando la sua salute è
peggiorata, non mi sono neppure sognato di preparare un
"coccodrillo", come si chiama in gergo giornalistico l'articolo
destinato a rimanere nel cassetto sino al momento della dipartita del soggetto.
Ho quindi deciso di scrivere
oggi di Octavio non un'altra laudatio, ma quelli che sono i miei
personali ricordi, quasi cristallizzando in queste righe il nostro rapporto.
Riflettevo sul fatto che non ho
precisa memoria dell'occasione della nostra conoscenza – e la cosa mi pare
naturale, mi sembra di averlo conosciuto da sempre -anche se la ragione mi dice
che il tutto deve risalire all'inizio del secondo Millennio, quando io mi
affacciavo sulla scena letteraria triestina con un po' di "giovanile"
incoscienza e tanti dubbi, mentre lui era già un'icona del mondo letterario.
Nel nostro incontro ha avuto un
ruolo Claudio Martelli, che avevo ritrovato dopo trent'anni fuori Trieste a
fare tutt'altro, e che si era amichevolmente prestato a recensire su
Artecultura il mio primo romanzo.
Una questione di karma, si
potrebbe dire: nel 2003 si costituì il PEN Trieste e Claudio ed io venimmo
coinvolti nella fondazione. A quel tempo avevo dei problemi che mi impedirono
di essere immediatamente operativo, ma tutto cominciò da lì, un'avventura che
non mi pento di aver intrapreso.
Eravamo molto diversi, lui ed
io, ma evidentemente c'era qualcosa che ci legava – complice il fatto di poter
intenderci in spagnolo, cosa che faceva piacere ad entrambi.
Octavio apparteneva ad un altro
mondo, o quanto meno ad un altro livello: era evidente a chiunque che la sua
rete di conoscenze ed interessi era vastissima, di un altro ordine di
grandezza, come direi usando il gergo della mia vita professionale.
Rimanevo sempre meravigliato,
soprattutto nei miei primi contatti con il mondo del PEN International, nel
vedere che era conosciutissimo nel mondo sudamericano e in quello slavo lato
sensu, dalla Slovenia alla Russia.
Mi sorprendevano sempre il suo
eloquio misurato, il tratto nei confronti delle persone che incontrava,
cordiale nel rispetto dei valori reciproci, la capacità di riandare a un
passato difficile ma importante senza lamenti né vanterie, e soprattutto quella
di discernere il grano dal loglio – per usare una espressione delle scritture –
sul piano personale e letterario.
I suoi consigli sui manoscritti
erano sempre molto centrati, e porti in maniera da far meditare chi li
riceveva. Sapeva criticare senza stroncare, con garbata ironia. In altre
parole, era una persona di innata eleganza, nel tratto, nei modi, nei gesti e –
last but not least – nel vestire.
E la sua prosa, la sua prosa… So bene che era un poeta di grande
levatura, capace di distillare versi brevi ed incisivi, ma mi affascinava il
suo affabulare ed il concetto dei personaggi autonomi (è capitato anche a me,
nel mio piccolo, di sentire i personaggi sfuggirmi di mano…) che ben è
rappresentato in una sua dichiarazione: "La verità è che nemmeno io so tutto
del señor Kreck. Per me, rimane ancora un tipo sfuggente". Viene
in mente un aforisma del suo amico Borges: “Ogni poesia è misteriosa; nessuno
sa interamente cosa gli sia stato concesso di scrivere.”
Non posso non ripetere quanto detto un anno fa sulla irrepetibilità della
compagine familiare – termine quasi bellico – che lo ha sempre attorniato: tre
donne, tutte e tre professoresse universitarie, esistenzialmente essenziali: la
moglie Elvira Maison e le figlie Ana Cecilia e Betina Lilián.
L'atteggiamento sereno di Octavio nei confronti dei suoi problemi di salute
gli ha permesso di essere tra i poeti che si sono avvicendati nella iniziativa
poetica multiculturale del PEN "Leopardinfinito" a fine estate, e di
assistere all'omaggio resogli, un mese prima che ci lasciasse, dai suoi
colleghi dell'Università di Trieste "Un mitteleuropeo d'oltre Oceano",
con grande interesse per il giudizio dei suoi pari sulla sua opera.
Era molto affezionato al PEN Trieste, che considerava una sua creatura, ed
aveva da sempre un sogno, e me lo ripetè in uno degli ultimi incontri: vedere
il PEN Trieste acquartierato in una sede, con un archivio, degli scaffali per
le opere dei Soci e delle Socie, un tavolo e un po' di seggiole per sedersi e
parlare tra di noi di letteratura o di altre materie attinenti all'attività del
PEN come la lettura, la difesa della libertà di espressione e delle lingue
minoritarie, la scrittura al femminile, la pace tra i popoli, ma "a casa
nostra". Mi chiedo se saremo mai in grado – io e chi mi succederà – di dare
concretezza al suo sogno.
Potrei andare avanti all'infinito.
Questi quasi vent'anni di amicizia non si possono riassumere se non dicendo che
da qualche giorno mi sento più solo – ed obbligato a continuare nell'impresa
che abbiamo cominciato assieme.
Scrivo queste righe dopo la
cerimonia funebre, una circostanza in sé triste, che la naturale eleganza
dell'intera famiglia Prenz ha trasformato in un ulteriore omaggio, in un
tributo che era giusto rendere ad uno spirito così grande.
Chiudo questa rievocazione con un
breve poema, che ho scritto il pomeriggio stesso della sua dipartita. Forse è
la maniera migliore per farlo, immaginando che mi ascolti assentendo e
stringendo nella mano la sua pipa.
Mi mancherai
Mi mancherà il tuo navigare
nei mari del nostro mondo
il tuo convivere con più
anime
senza litigare con te
stesso
l'ironia leggera ma
pungente
con cui chiudevi molte
discussioni.
Sei sempre stato tu
l'anima del nostro
sodalizio
mentre io pensavo agli
ingranaggi
con un pragmatismo senza
illusioni.
Ma ci sarai ancora
come una raffica del vento
di questa città in cui hai
voluto restare
e che ti ha sempre guardato
con interesse un po'
stupito
mentre tu sorridevi.
Hasta la vista, Octavio.
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